Inferno, La selva oscura
La selva oscura, canto primo
Il primo canto dell’Inferno assume la funzione di introduzione generale dell’opera.
Dante si trova in una selva oscura, luogo simbolico in cui il poeta si smarrisce; esso costituisce l’allegoria del peccato in cui ogni uomo può perdersi nel suo cammino.
Dante descrive la selva come selvaggia, aspra e forte, tanto amara che la morte lo è poco di più. Da essa esce quando si ritrova ai piedi del colle, simbolo della felicità terrena, la cui ascesa gli è però impedita dalle tre fiere.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Parafrasi
A metà del cammino della vita (nel mezzo del cammin di nostra vita) mi ritrovai in una buia boscaglia (selva oscura allegoria del peccato e della dannazione) perché avevo smarrito la giusta via (la diritta via = la via che conduce alla salvezza).
Ahimé, descrivere cos’era è cosa ardua (dura) questo bosco selvaggio (selva selvaggia – paronomasia, ossia accostamento di parole di suono simile, ma con significato diverso), impervio e difficile (forte), che al solo ripensarvi mi torna la paura!
È tanto angosciante (amara – è riferito alla selva) quasi quanto la morte; ma per dire ciò che di buono vi trovai (trattar del ben ch’i’ vi trovai = l’incontro con Virgilio), parlerò [prima] delle altre cose che lì ho viste (l’altre cose ch’i’ v’ho scorte = le tre fiere da cui Virgilio lo libererà).
Inferno, La porta infernale, canto terzo
Dante e Virgilio giungono di fronte alla porta dell’Inferno, su cui spicca una scritta di colore scuro. Essa mette in guardia chi sta per entrare, avvisando che tale porta durerà in eterno e che una volta varcata non ci sarà più speranza di tornare indietro. Dante non ne afferra subito il senso e Virgilio lo ammonisce a sua volta a non aver paura e a prepararsi all’ingresso nell’Inferno, tra le anime dannate. Quindi il poeta latino prende amorevolmente Dante per mano e lo conduce attraverso la porta infernale.
Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”
Parafrasi
Attraverso me si va nella città del dolore,
Attraverso me si va nell’eterno dolore,
Attraverso me si va tra le genti dannate.
Fui fabbricata da Dio eccelso mosso da giustizia;
Mi fece la Divina potenza,
La suprema Sapienza ed il primo Amore.
Prima di me ci furono solo creature
Immortali, ed anche io durerò in eterno.
Abbandonate per sempre ogni speranza voi che entrate
Inferno, PAOLO E FRANCESCA, CANTO QUINTO I lussuriosi
Inferno: Canto Quinto
È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.
Superato Minosse, Dante si ritrova in un luogo buio, dove soffia incessante una terribile bufera che trascina i dannati e li sbatte da un lato all’altro del Cerchio. Quando questi spiriti giungono davanti a una «rovina», emettono grida e lamenti e bestemmiano Dio. Dante capisce immediatamente che si tratta dei lussuriosi, i quali volano per l’aria formando una larga schiera simile agli stornelli quando volano in cielo.
Dante nota che due anime volano accoppiate e manifesta il desiderio di parlare con loro.
Virgilio acconsente e invita Dante a chiamarle. I due spiriti si staccano dalla schiera di anime e volano verso di lui, come due colombe che vanno verso il nido: sono Paolo e Francesca, e quest’ultima si rivolge a Dante ringraziandolo per la pietà che dimostra verso di loro.
La storia di Paolo e Francesca
Paolo Malatesta e Francesca da Polenta riminese lei (anche se nata a Ravenna), della vicina Verucchio lui – rappresentano le principali anime del cerchio dei lussuriosi.
In vita furono cognati (Francesca era infatti sposata con Gianciotto, fratello di Paolo) e questo amore li condusse alla morte per mano del marito di Francesca.
Francesca spiega a Dante come tutto accadde: leggendo il libro che spiegava l’amore tra Lancillotto e Ginevra, i due trovarono calore nel bacio tremante che si scambiano e che caratterizza
l’inizio della loro passione.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.
Queste parole da lor ci fuor porte.
Parafrasi
Amore, che subito (ratto) attecchisce (s’apprende) in un cuore gentile, fece innamorare (prese) costui, ossia Paolo, della bellezza del mio corpo che mi fu tolto; e l’intensità del suo amore (il modo) ancora mi colpisce (m’offende).
L’Amore, che a nessuno (nullo) che sia amato consente di non corrispondere lo stesso sentimento (amar perdona) mi fece innamorare (mi prese) della sua bellezza (piacer) così intensamente, che, come vedi, ancor non mi abbandona.
L’Amore ci portò a morire insieme. Il luogo infernale, più profondo, di Caina (nono cerchio dell’Inferno) attende che ci uccise. Queste furono le parole dette da loro.
Inferno, ULISSE, canto XXVI
Grandezza e limiti della ragione umana
È circa mezzogiorno del 9 aprile 1300.
Sabato santo e Dante è giunto nel basso inferno, nell’VIII bolgia, dell’VIII cerchio.
In questo luogo sono puniti i consiglieri fraudolenti, ossia coloro che in vita usarono la loro intelligenza e la loro astuzia, per fare frodi ossia inganni.
Dante vede vagare questi dannati coperti da una fiamma, che non li rende riconoscibili.
La figura più importante di questa parte è Ulisse, l’ideatore del cavallo di Troia.
O frati,” dissi, “che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigiliad’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: |
Parafrasi
Fratelli miei, che attraverso centomila pericoli siete arrivati a questa “piccola” ultima soglia (le famose colonne d’Ercole) presso l’Occidente;
non negate ai nostri sensi quello che rimane da vedere, dietro al sole (dietro all’orizzonte), nel mondo disabitato;
considerate la vostra origine: non siete nati per vivere come bruti (come animali), ma per praticare la virtù e apprendere la conoscenza.
Il conte UGOLINO della Gherardesca, canto XXXIII
Questo canto inizia quindi con la macabra figura di cannibalismo messo in evidenza dall’immagine della bocca di Ugolino che addenta il capo di un altro uomo.
Chi era Ugolino? Ugolino della Gherardesca, era conte di Donoratico e appartenente ad una famiglia di antico casato; egli era signore di una parte del regno di Cagliari e fra i primi della città di Pisa. Di appartenenza ghibellina, si alleò poi con la parte guelfa al fianco dei Visconti, per questioni legate ai suoi feudi in Sardegna, feudi di cui non voleva pagare i tributi al Comune di Pisa.
In apertura del canto XXXIII dell’Inferno, Dante si trova nella ghiaccia del Cocito, nel nono cerchio, dove sono puniti i traditori della patria e degli ospiti. Già nella conclusione del canto precedente, egli aveva scorto due dannati immersi in parte nel ghiaccio, uno dei quali addentava la nuca dell’altro.
Sono il conte Ugolino della Gherardesca e l’arcivescovo Ruggieri di Pisa.
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.
Parafrasi
Quel peccatore (Ugolino) sollevò la bocca dal suo feroce (fiero – ferino) pasto, pulendola (forbendola) con i capelli della testa (dell’Arcivescovo Ruggieri) ch’egli aveva roso (guasto) sulla nuca (di retro – nella parte posteriore).
Poi cominciò [a parlare]: “Tu vuoi ch’io ricordi (rinovelli) il dolore disperato che m’opprime (mi preme) il cuore anche soltanto (già pur) a pensarci (pensando), prima ancora di parlarne (ne favelli).
Ma se le mie parole devono esser un seme (esser dien seme – possono essere utili) a procurare infamia al traditore che sto rodendo, [allora] mi vedrai parlare e lacrimare insieme (zeugma: i 2 verbi sono retti entrambi da vedrai – ricorda Francesca nel V canto: dirò come colui che piange e dice).
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’ io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’ io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno.
Parafrasi
Dopo che fummo arrivati al quarto giorno (al quarto dì venuti), Gaddo [figlio quartogenito di Ugolino] mi si gettò ai piedi disteso dicendo: “Padre mio perché non mi aiuti?”.
E lì se ne morì; e come tu ora vedi me, così io vidi gli altri tre (li tre) cadere uno ad uno tra il quinto e il sesto [giorno], finché io stesso cominciai già cieco, a brancolare sopra ognuno di loro chiamandoli per altri due giorni [il settimo e l’ottavo giorno] dopo la loro morte, poi più che il dolore mi uccise la fame (più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno la famosa frase suggerisce la possibilità di un epilogo cannibalesco).
PURGATORIO
INCONTRO CON CATONE
Incontro di Dante con Catone
Siamo appena entrati nel nuovo regno, nel Purgatorio, avvolto da un’atmosfera diversa, un paesaggio che simboleggia il passaggio dalle tenebre infernali alla luce, e subito Dante, che qui più che mai si identifica con i penitenti, ci presenta la figura di Catone, che fin da subito ci appare un personaggio straordinario.
Catone è “veglio solo, degno di tanta reverenza in vista”, ma ciò che più colpisce l’attenzione di dante sono le quattro stelle che illuminano il suo viso; queste simboleggiano le quattro virtù cardinali, perse dopo il peccato originale, cioè prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
Catone quindi è moralmente integro, come erano gli uomini al momento della creazione
Com’io da loro sguardo fui partito
un poco me volgendo a l’altro polo
là onde ’l Carro già
era sparito,
vidi presso di me un veglio solo
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Parafrasi
Appena ebbi smesso di guardarle, volgendomi di poco nella direzione dell’altro polo, là verso il punto nel quale ormai non mi era più possibile vedere le stelle della costellazione del Carro (in quanto esse sono scomparse al di sotto dell’orizzonte e dunque sono nascoste alla vista del poeta), vidi che vicino a me c’era un vecchio solitario, dall’aspetto tanto degno di rispetto, che nessun figlio ne deve di più al proprio padre.
Il vecchio che appare a Dante è un personaggio dell’antica Roma, Catone Uticense, un pompeiano avversatore di Cesare. Egli, dopo essere stato sconfitto ad Utica, si dette la morte per non finire prigioniero dei cesariani, e divenne, per questo suo gesto, un simbolo dell’amore per la libertà. Dante ne fa il guardiano della spiaggia sulla quale approdano le anime destinate alla purgazione.
Egli aveva una barba lunga e brizzolata (di pel bianco mista), e lunghi e brizzolati erano anche i suoi capelli, che scendevano sul suo petto in due fasce.
PARADISO
Canto XI
Il canto undicesimo del Paradiso di Dante Alighieri si svolge nel cielo del sole, ove risiedono gli spiriti sapienti; siamo alla sera del 13 aprile 1300.
Questo canto è speculare a quello seguente, in quanto entrambi parlano di un ordine religioso, lodandolo alle sue origini e lamentando la sua decadenza presente: qui è Tommaso d’Aquino, frate dell’ ordine domenicano, che descrive prima la vita di Francesco d’Assisi.
S. Tommaso, inizia a parlare allorché la corona dei beati ha compiuto il suo secondo giro intorno a Dante e Beatrice. La sublime armonia della corona dei beati sapienti induce Dante a disapprovare gli insensati affanni terreni, che tengono gli uomini legati a cose infruttuose. Dante osserva che i ragionamenti degli uomini sono fallaci e li inducono a volgersi alle cose terrene, per cui alcuni si dedicano agli studi giuridici, altri alle scienze mediche, altri alle cariche ecclesiastiche, altri ancora al governo temporale, ai furti, agli affari politici, al piacere carnale e all’ozio: invece il poeta è libero da tutte queste cose, accolto insieme a Beatrice nell’alto dei Cieli.
Canto XI
La vanità delle cose terrene
O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura, e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m’era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto.
Parafrasi
O futili preoccupazioni (insensata cura) degli uomini, quanto sono sbagliati (difettivi) quei ragionamenti (sillogismi), che ti fanno volare (batter l’ali) in basso.
Chi andava (sen giva) dietro a cavalli giuridici (iura), chi dietro alla medicina (amforismi), chi seguendo le prebende ecclesiastiche (sacerdozio), chi a governare con la violenza (per forza) o con l’inganno (per sofismi),
Chi a rubare e chi alle cariche pubbliche (civil negozio), chi s’affaticava travolto (involto) dai piaceri (diletto) della carne e chi si abbandonava (si dava) all’ozio, quando io, libero (sciolto) da tutte queste cose, ero salito (m’ero suso) in cielo con Beatrice, accolto tra la gloria dei beati (gloriosamente).